Genetica


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Roberto Insolia‘s insight:

Per la prima volta è stato stimato il numero di varianti genetiche, potenzialmente dannose, presenti nel nostro DNA: ognuno di noi è portatore di circa 400 varianti potenzialmente "maligne", almeno due delle quali sono state già associate a fenotipi patologici. Ma solo una persona su dieci sviluppa poi la malattia genetica associata a queste varianti. Circa un quarto di esse può causare dei difetti funzionali in specifiche proteine, i cui effetti però si manifestano solo negli ultimi decenni della vita, nel contesto di un progressivo invecchiamento delle nostre cellule e quindi di tutto l’organismo."Praticamente il genoma di ognuno di noi contiene dei difetti, ma non sempre questo ha conseguenze sulla salute – almeno nell’immediato. Al momento è estremamente difficile prevedere le conseguenze cliniche di una specifica variante genetica, ma il comprendere le basi genetiche e funzionali delle malattie è un passo fondamentale verso l’era della medicina personalizzata", puntualizza David Cooper, uno dei coordinatori del progetto.

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I metodi tradizionali per la produzione dei vaccini prevedono l’impiego degli stessi microorganismi patogeni – spesso attenuati oppure uccisi – per indurre la risposta immunitaria dell’ospite; tuttavia questo approccio non è privo di pericoli, soprattutto nel caso dei microorganismi attenuati, così come le modalità di trasporto e conservazione degli stessi vaccini possono influenzarne l’efficacia finale. Ora, un gruppo internazionale coordinato dal Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Milano ha impiegato l’innovativa vaccinologia strutturale, con la quale non si parte più dal patogeno, ma da indagini genomiche, proteomiche e computazionali per produrre vaccini più sicuri, più efficaci e più stabili. Con questo approccio i ricercatori hanno isolato un antigene proteico – promettente bersaglio per un futuro vaccino – del batterio Burkholderia pseudomallei responsabile della meloidosi, una malattia endemica nelle zone tropicali del sud-est asiatico. “Manca ancora un passaggio per avere il vaccino, tuttavia si tratta del primo studio che dimostra le potenzialità della vaccinologia strutturale”, annuncia Martino Bolognesi, responsabile del progetto.
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Le patologie a carico delle coronarie, insieme alla loro principale complicanza – l’infarto cardiaco, rappresentano una delle principali cause di morte nel mondo, tanto che ad esse sono imputabili circa un quinto dei decessi fra i maschi adulti. Dopo la presentazione al recente congresso della American Society of Human Genetics http://goo.gl/2MZdo ecco ora pubblicato lo studio, frutto di una collaborazione di circa 170 ricercatori, che ha indagato le basi genetiche delle coronaropatie in oltre 190.000 individui http://goo.gl/umUTG Oltre ai già noti geni del metabolismo dei grassi, “certamente uno dei risultati più interessanti dello studio è che alcuni individui possono avere un rischio maggiore di sviluppare una patologia coronarica, perchè portatori di specifiche variante nei geni coinvolti nei processi infiammatori”, puntualizza Themistocles Assimes, uno dei coordinatori dello studio presso lo Stanford’s Department of Medicine.
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E’ stata svelata la struttura proteica tridimensionale che contiene il genoma dei virus influenzali. Oltre al gruppo spagnolo coordinato da Jaime Martín-Benito, anche quello di Ian Wilson http://goo.gl/pCgq0 ha infatti studiato le ribonucleoproteine, cioè il complesso di RNA e proteine che caratterizza la parte più interna di un virus. Tra le varie proteine, un ruolo fondamentale è esercitato dalla polimerasi, enzima coinvolto nei processi di replicazione dell’RNA virale e quindi di diffusione dell’infezione. Attraverso la microscopia elettronica, è stato possibile seguire la replicazione virale e le modifiche che avvengono a livello delle ribonucleoproteine, passo fondamentale per comprendere i meccanismi con i quali i virus influenzali infettano le nostre cellule, provocando poi i ben noti sintomi.
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Al recente congresso della American Society of Human Genetics http://goo.gl/DZqW3 sono stati presentati i risultati di uno studio in merito alle basi genetiche delle patologie coronariche. Attraverso il confronto del DNA di circa 63.000 pazienti con quello di oltre 130.000 individui sani, sono state identificate 20 nuove varianti genetiche che si differenziano nei due gruppi. Si ritiene quindi che il rischio cardiovascolare non sia strettamente legato a pochi “importantissimi” geni, bensì un numero piuttosto elevato di varianti genetiche – ad oggi sono 47 quelle conosciute – concorre ad aumentare la possibilità che ognuno di noi possa, con l’avanzare dell’età, andare incontro a seri disturbi cardiaci. Buona parte di queste varianti si localizza in geni legati al metabolismo dei grassi e alla regolazione della risposta infiammatoria. Se da una parte la presenza delle placche aterosclerotiche – ricche di grasso – è un noto fattore di rischio cardiovascolare, dall’altra è meno noto il ruolo dell’infiammazione nella genesi dei disturbi cardiaci; quest’ultimo quindi rappresenta un nuovo e importante campo di ricerca, con il fine ultimo di sviluppare terapie sempre più mirate per la cura delle patologie coronariche.
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Nel 2003 è stato completato il sequenziamento del primo genoma umano http://goo.gl/pqx8G Poi, con il progetto HapMap sono state indagate le varianti più comuni presenti nel genoma http://goo.gl/Y4icr Ora, il Progetto 1000 Genomi ha definito il profilo delle varianti , sia comuni che più rare, presenti in 1092 individui appartenenti a etnie diverse quali la caucasica, l’africana, l’asiatica, l’afro-americana. Questo progetto, iniziato nel 2008, ha l’obiettivo di creare la più accurata banca dati genomica, attraverso il sequenziamento di circa 3.000 individui, appartenenti a 26 etnie diverse http://goo.gl/1Ko61 Ad oggi sappiamo che nella popolazione mondiale ci sono delle varianti genetiche – presenti in circa l’1% della popolazione – che seguono delle distribuzioni di tipo geografico. Ora bisogna capire il ruolo funzionale di queste varianti genetiche: influenzano altre porzioni del nostro genoma? aumentano la suscettibilità ad alcune malattie? determinate etnie sono più soggette di altre ad ammalarsi di specifiche patologie, in relazione al loro background genetico? Le risposte potranno arrivare proprio dal Progetto 1000 Genomi – ci ricorda Fuli Yu http://goo.gl/XwTFd professore al Baylor College of Medicine Human Genome Sequencing Center, attivamente coinvolto nella ricerca.
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I mitocondri sono degli organuli presenti nel citoplasma delle cellule eucariote, il cui DNA è sempre di origine materna http://goo.gl/EsKHd Quando infatti una cellula uovo e uno spermatozoo si incontrano, al momento della fecondazione, i mitocondri del futuro zigote provengono solo dalla cellula uovo: è altresì noto come il DNA mitocondriale di origine materna possa essere responsabile di alcune serie patologie. Ecco quindi che sostituire i mitocondri materni, il cui DNA è portatore di mutazioni, potrebbe essere la giusta strategia per evitare la trasmissione di una malattia su base genetica. Questo è quanto un gruppo di ricercatori guidato da Shoukhrat Mitalipov ha dimostrato essere possibile, per la prima volta in cellule umane http://goo.gl/AyIKL Sono stati infatti isolati ovociti, provenienti sia da donne portatrici di anomalie mitocondriali che da donne sane, e in entrambi i casi sono stati rimossi i nuclei delle cellule; i nuclei provenienti dagli ovociti con i mitocondri malati sono stati poi inseriti nelle cellule uovo delle donne con mitocondri sani. Questi “nuovi” ovociti sono stati quindi fecondati con successo dagli spermatozoi, sviluppandosi fino ai primi stadi dell’embrione. Il patrimonio genetico embrionale era perciò costituito dal DNA dello spermatozoo e della cellula uovo originale (cioè delle donne portatrici di anomalie mitocondriali), per quanto riguarda la componente nucleare, e dal DNA dei mitocondri sani provenienti dall’ovocita donatore.  Come sottolineano gli stessi ricercatori, la strada è ancora lunga per un’applicazione terapeutica di questa tecnica, tuttavia questi risultati gettano le basi per una futura terapia genica in grado di prevenire la trasmissione di alcune gravi malattie dalla madre al figlio.
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L’endometrio è la mucosa che ricopre la cavità interna dell’utero, e la sua degenerazione maligna rappresenta la patologia tumorale di tipo ginecologico più frequente nelle donne – nonchè la quarta causa generale di tumore nel sesso femminile – responsabile di oltre 47.000 decessi annui negli Stati Uniti http://goo.gl/D8Kgs Sono noti tre sottotipi diversi di tumore all’endometrio, due dei quali in particolare sono molto aggressivi, non rispondono alle terapie, tendono a metastatizzare e hanno prognosi spesso infauste. I ricercatori hanno quindi condotto uno studio genomico comparando 26 campioni di tessuto, prelevati da donne con queste forme più aggressive di tumore, con quello sano di altri 13 pazienti; in particolare, attraverso sofistica tecniche di analisi molecolare è stato sequenziato l’esoma, cioè quella piccola porzione di DNA – circa il 2% dell’intero genoma – che codifica per le proteine, e quindi può avere un ruolo primario nello sviluppo delle malattie.  “E’ noto che i geni più frequentemente mutati sono quelli solitamente responsabili della crescita tumorale e quindi ci siamo concentrati su quelli”, spiega Daphne W. Bell, responsabile della ricerca. Quindi, fra le oltre 500 alterazioni genetiche inizialmente identificate, sono state selezionate solo le nove varianti presenti in più di un campione tumorale. Approfondendo ulteriormente le analisi, tre geni (CHD4, FBXW7 e SPOP) sono risultati più frequentemente alterati (40% dei casi) nelle forme più aggressive di tumore dell’endometrio. Diverse sembrano essere le funzioni di questi geni: si passa dal rimodellamento della cromatina – cioè la regolazione dello stato strutturale del DNA all’interno del nucleo – alla distruzione delle proteine non più necessarie all’interno della cellula. La stessa Bell sottolinea che “se da una parte è comunque ancora presto per avere nuovi farmaci antitumorali basati su queste scoperte, tutto questo rappresenta una nuova e più precisa conoscenza in merito a questa seria patologia ginecologica”.
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E’ noto come l’arsenico sia letale per quasi tutti gli organismi; tanto che la presunta scoperta nel 2010 di un batterio che addirittura conteneva nel proprio DNA questo elemento al posto del fosforo aveva destato enorme scalpore http://goo.gl/U7b7I Sono stati ora presentati i primi risultati ottenuti da alcuni ricercatori che da tempo studiano le popolazioni di quei villaggi sulle Ande argentine, dove l’acqua contiene alti livelli di arsenico. Da migliaia di anni queste popolazioni ingeriscono quantità potenzialmente tossiche di arsenico, senza apparentemente accusare alcun effetto: questo potrebbe essere legato a una specifica variante genetica del gene AS3MT, il principale responsabile del metabolismo cellulare dell’arsenico. Questa specifica variante è infatti molto più comune nella popolazione dei villaggi argentini con l’acqua ricca di arsenico, rispetto ad altre popolazioni rurali del Perù, dove invece questo elemento è pressoché assente nell’acqua.  Se i dati saranno confermati, tutto questo rappresenterebbe uno dei pochi esempi – fin’ora noti nello scenario dell’evoluzione Umana – di adattamento alle tossine ambientali.
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L’espressione di circa 60 mila geni è stata mappata nelle diverse regioni anatomiche del nostro cervello e il tutto è ora liberamente consultabile attraverso un sito web dedicato http://goo.gl/2JIl Il topolino di laboratorio è stato il primo animale per il quale è stato possibile disegnare la mappa dell’espressione genetica cerebrale. Sfida ben più difficile era quella di raccogliere gli stessi dati per il cervello umano – perché l’organo è decisamente più grande e complesso, e perché è difficile ottenere tessuto cerebrale in buone condizioni. Ora questa ricerca è stata compiuta dall’Allen Institute for Brain Science, grazie anche alla donazione dei cervelli sani di due giovani uomini, sui quali sono state condotte sofisticate analisi di tipo tissutale e genetico http://goo.gl/uDTW5 Non sono emerse significative differenze fra i due cervelli, anche perché appartenevano a due persone dello stesso sesso ed età; geni differentemente espressi sono invece emersi confrontando i dati disponibili per il topo e il macaco. Proprio queste differenze rappresentano il punto di partenza per le successive, importanti ricerche di tipo medico: molti farmaci neurologici sono infatti testati sugli animali, e quindi essere a conoscenza delle differenze funzionali fra i cervelli di queste specie diverse è fondamentale per ottimizzare l’efficacia dei farmaci stessi.
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